quinta-feira, 23 de outubro de 2014

LA COMUNIONE DEI BENI A GERUSALEMME E AD ANTIOCHIA


LA COMUNIONE DEI BENI A GERUSALEMME E AD ANTIOCHIA
LETTURA ATTUALIZZANTE DEGLI ATTI DEGLI APOSTOLI
(At 4,32-5,6; 11,26-30)
“Vendi tutto quello che hai, distribuiscilo ai poveri e avrai un tesoro nei cieli; e vieni! Seguimi!” (Lc 18,22);
“Nessuno infatti tra loro era bisognoso, perché quanti possedevano campi o case li vendevano, portavano il ricavato di ciò che era stato venduto e lo deponevano ai piedi degli apostoli; poi veniva distribuito ai singoli secondo il bisogno di ciascuno” (At 4, 34-35).
Tra la condizione posta da Gesù al notabile “molto ricco” per seguirlo e la prassi della comunità giudeo-credente di Gerusalemme, non c’è alcuna continuità. Mentre Gesù chiede al ricco di sbarazzarsi di tutti i suoi beni e di darli ai poveri, i primi giudeo-credenti vendono i loro beni, ma, anziché dare il ricavato ai poveri, lo capitalizzano, accumulandolo all’interno della loro comunità.
È evidente che il modello economico della primitiva comunità giudeo-credente non si ispira alle parole di Gesù ma a quello, già conosciuto, delle comunità monastiche essene : “La regola è che chi entra metta il suo patrimonio a disposizione della comunità, sì che in mezzo a loro non si vede né lo squallore della miseria, né il fasto della ricchezza, ed essendo gli averi di ciascuno uniti insieme, tutti hanno un unico patrimonio come tanti fratelli” .
La buona notizia
Gli Atti degli Apostoli formano la seconda parte dell’opera composta da Luca (At 1,1) . Se nella prima parte l’evangelista presenta l’insegnamento e le opere del Cristo, nella seconda segnala le luci e le ombre della pratica del vangelo e di come questo venne inteso, o frainteso, dalle comunità che stavano nascendo. Fin dalle prime righe del vangelo di Luca si avverte la sua preoccupazione per l’aspetto sociale, per il tema del denaro e quello della povertà. Delle quattro volte che nel Nuovo Testamento appare la parola mamona , ben tre sono in Luca . Mentre i rabbini distinguevano tra mamona menzognera e verace , per Gesù mamona è sempre disonesta, cioè ac¬quisita in maniera ingiusta e l’unico suo riscatto è usarla per fare del bene . Gesù pone i suoi discepoli di fronte a una scelta radicale: “Non potete servire Dio e mamona” (Lc 16,13). Il servizio a Dio e l’accumulo della ricchezza sono incompatibili poiché la fiducia nel dio-denaro porta al disprezzo del Signore . Pensare di poter usare la ricchezza per meglio servirlo è un tradimento del messaggio di Gesù e una tentazione diabolica (Lc 4,5-6).
Già nel cantico posto in bocca a Maria, Luca descrive un Signore che mentre “ha ricolmato di beni gli affamati, ha rimandato i ricchi a mani vuote” (Lc 1,53; Sal 107,9), e nella predicazione di Giovanni il Battista è sempre presente il richiamo alla giustizia sociale .
Quando Gesù compare, le sue prime parole sono per annunciare la fine della povertà per i miseri, perché lo Spirito, ricevuto al momento del battesimo, lo “ha mandato per annunziare la buona notizia ai poveri” (Lc 4,18), e la buona notizia che i poveri attendono non è altro che la fine della loro indigenza.
I primi discepoli chiamati da Gesù comprendono di dover orientare diversamente la loro esistenza e di dover fare una scelta radicale, per questo “tirate le barche a terra, lasciarono tutto e lo seguirono” (Lc 5,11.28), e Gesù li dichiara “beati” perché questa scelta per la povertà consente loro di sperimentare la signoria di Dio (Lc 6,20). Gesù piange come morti i ricchi , presentati come persone meschine che, anziché possedere i beni, ne vengono possedute: “Stupido, questa notte stessa ti sarà richiesta la tua vita. E quello che hai preparato, di chi sarà?” (Lc 12,20)
Nella parabola del ricco e di Lazzaro, la descrizione che Gesù fa dell’uomo ricco è eloquente. Il contesto della parabola è quello di una polemica tra Gesù e “i farisei, che erano attaccati al denaro, e ascoltavano tutte queste cose e si burlavano di lui” (Lc 16,14), e il racconto inizia con l’illustrazione, contenuta in un solo versetto, del ricco: “C’era un uomo ricco, che portava vestiti di porpora e di lino finissimo, e ogni giorno si dava a lauti banchetti” (Lc 16,19). Il ricco tenta di mascherare la povertà interiore con lo splendore delle vesti, e di saziare la fame di pienezza di vita con l’abbondanza di cibo. Lo sfarzo della sua esistenza nasconde la miseria della sua vita. Pensa di essere ricco, di non aver bisogno di nulla, “ma non sa di essere un infelice, un miserabile, un povero, cieco e nudo” (Ap 3,17).
Per Gesù il valore dell’individuo consiste nel suo essere generoso (Lc 11,34-36). Per questo nel suo insegnamento invita a donare e di donarsi generosamente, per essere simili al Padre (Lc 6,31-38) e per sperimentare sempre, in ogni istante, la sua tenera e vigile presenza (Lc 12,22-31).
Nell’unica preghiera che insegna, Gesù invita i suoi discepoli a cancellare i debiti dei debitori (Lc 11,4). Non è possibile che nella comunità che ha fatto la scelta delle beatitudini vi siano creditori e debitori. Se ciò accade è perché al suo interno esistono dei pseudo-discepoli che non hanno accolto la condizione posta da Gesù: “Chiunque di voi non rinuncia a tutti i suoi averi, non può essere mio discepolo” (Lc 15,32). Il Signore esclude categoricamente che nella comunità dei credenti possano entrare dei ricchi . La comunità di Gesù, il Signore, è composta tutta da signori, ma non da ricchi. “Signore” è colui che dà, il ricco è colui che ha. Tutti possono dare generosamente, meno i ricchi, che sono tali appunto perché non sono generosi .
Un cuor solo?
Molte comunità religiose hanno preso come modello di vita la primitiva comunità giudeo-credente descritta da Luca negli Atti: “Tutti coloro che erano diventati credenti stavano insieme e tenevano ogni cosa in comune; chi aveva proprietà e sostanze le vendeva e ne faceva parte a tutti, secondo il bisogno di ciascuno… Nessuno infatti tra loro era bisognoso, perché quanti possedevano campi o case li vendevano, portavano il ricavato di ciò che era stato venduto e lo deponevano ai piedi degli apostoli; poi veniva distribuito ai singoli secondo il bisogno di ciascuno” (At 2,44-45; 4, 34-35).
Secondo questo modello gli apostoli erano divenuti gli amministratori dei beni comunitari . Con il termine apostolo gli evangelisti non indicano tanto un titolo quanto una funzione, che è appunto quella di essere inviato, messaggero per un determinato compito . Gesù aveva chiamato i discepoli per inviarli “ad annunziare il regno di Dio” (Lc 9,2) ed essere suoi testimoni “fino agli estremi confini della terra” (At 1,8); e aveva chiesto loro di “non prendere nulla per il viaggio, né bastone, né bisaccia, né pane, né denaro” (Lc 9,3) e di non stare con l’animo in ansia per il proprio sostentamento (Lc 12,29), dando così prova di fidarsi completamente dell’assistenza di quel Padre che dona queste cose ai suoi in sovrabbondanza (Lc 12,31). Ora questi discepoli si sono trasformati in sedentari amministratori della comunità ed esercitano un potere che viene unanimemente riconosciuto .
Gli inconvenienti di questo sistema economico emergono subito. Infatti, a Giuseppe, detto Barnaba, che vende i suoi averi consegnandoli ai piedi dei discepoli, l’evangelista contrappone una coppia, Anania e Saffira, che prudentemente consegna solo una parte del ricavato agli apostoli tenendo il resto per sé (At 5,1-11). Nel preciso momento in cui si è ricorsi ad amministratori dei beni della comunità è iniziata l’ipocrisia e la finzione.
Quella di Luca non è l’esaltazione di un modello, ma una severa critica dello stesso. La comunione di beni adottata dalla comunità giudeo-credente di Gerusalemme con la creazione di un’amministrazione centralizzata, fu un fallimento: due terzi della comunità (Anania e Safira contro Giuseppe Barnaba) ricorsero alla simulazione per sfuggire al controllo degli amministratori, portando così la comunità alla rovina.
Se l’ideale, vantato dalla comunità di Gerusalemme, era che “la moltitudine di coloro che erano venuti alla fede aveva un cuore solo e un’anima sola e nessuno diceva sua proprietà quello che gli apparteneva, ma ogni cosa era fra loro comune” (At 4,32), la realtà mostrava un volto diverso. Di fatto in questa comunità emergeranno subito gravi ingiustizie che faranno sorgere “un malcontento fra gli Ellenisti verso gli Ebrei, perché venivano trascurate le loro vedove nella distribuzione quotidiana” (At 6,1). È evidente che non solo la comunione di beni non funzionava, ma ad esser emarginate erano proprio le categorie più deboli . Da questi elementi l’evangelista fa già presagire la fame e la povertà che questa comunità dovrà patire (At 11,28-29).
Un modello cristiano
La comunità giudeo-credente di Gerusalemme, almeno inizialmente, ha mostrato di non aver compreso la radicalità assoluta che esige il messaggio del Cristo e si è conformata alle istituzioni religiose giudaiche, “godendo del favore di tutto il popolo” (At 2,47). Quello di Luca non è un benemerito attestato alla comunità di Gerusalemme, ma una denuncia del suo comportamento. Questa comunità non gode del favore di Dio, ma di tutto il popolo, dimentica del monito di Gesù: “Ahi a voi quando tutti gli uomini diranno bene di voi. Allo stesso modo infatti facevano i loro padri con i falsi profeti” (Lc 6,26).
Nonostante Gesù avesse dichiarato il Tempio “un covo di ladri” (Lc 19,45), e ne avesse annunciato la totale distruzione (Lc 21,5), la comunità giudeo-credente di Gerusalemme continua a crederlo un’istituzione ancora valida e seguita a frequentarlo . È sorprendente leggere che di questa comunità fanno parte persino i farisei (At 15,5), i pii osservanti che hanno considerato Gesù un bestemmiatore (Lc 5,21.30), farisei che non sembrano minimamente sfiorati dalla novità portata da Gesù e continuano a imporre la circoncisione e altre pratiche religiose (At 15,1.5). A Gerusalemme la Legge, che Gesù ha ignorato e trasgredito , viene ancora creduta valida, come dichiarerà Giacomo a Paolo: “Tu vedi, fratello, quante migliaia di Giudei sono venuti alla fede e tutti sono osservanti della Legge” (At 21,20).
Ma c’è un’altra comunità, nata in terra pagana per opera di evangelizzatori provenienti dal mondo e dalla cultura greca, non vincolati dai nazionalismi dei discepoli di Gerusalemme, che “non proclamavano la Parola a nessuno fuorché ai Giudei” (At 11,19), i quali iniziano ad annunziare il vangelo anche ai pagani: “Alcuni di loro, cittadini di Cipro e di Cirene, giunti ad Antiòchia, cominciarono a parlare anche ai Greci, annunziando la buona notizia del Signore Gesù” (At 11,20).
E qui, in terra pagana, accade un fatto insperato: “E la mano del Signore era con loro e così un gran numero credette e si convertì al Signore” (At11,21). La “mano del Signore” è un segno di benedizione (At 4,30; 11,21), espressione dell’azione divina che accompagna e benedice l’attività degli evangelizzatori, e il risultato è che “ad Antiòchia per la prima volta i discepoli furono chiamati Cristiani” (At 11,26). Il Signore potenzia l’attività degli evangelizzatori perché questi realizzano il suo progetto d’amore universale dal quale nessuno è escluso.
Luca contrappone due comunità, quella di Gerusalemme, legata alle istituzioni religiose giudaiche, e quella sorta in terra pagana, ad Antiòchia, dove i credenti, per la prima volta, non sono più considerati una delle tante sette giudaiche, ma qualcosa di nuovo: seguaci del Cristo. La mano del Signore è su Antiòchia e non a Gerusalemme. Una volta che il messaggio di Gesù è stato liberato dalla camicia di forza della Legge e delle tradizioni religiose, lo Spirito ha potuto portare frutto abbondante.
Mentre ad Antiòchia i discepoli vengono riconosciuti come Cristiani, si viene a sapere che sarebbe “scoppiata una grave carestia su tutta la terra, ciò che di fatto avvenne sotto l’impero di Claudio” (At 11,27-28) . La reazione dei cristiani antiocheni all’annuncio della carestia, che avrebbe colpito anche loro (“su tutta la terra”), è esemplare. Anziché pensare a se stessi si preoccupano subito di soccorrere i fratelli “abitanti nella Giudea” (At 11,29). Gli antiocheni, che hanno accolto la buona notizia, credono nelle parole di Gesù , e hanno completa fiducia nel Padre che conosce ciò di cui la comunità ha bisogno (Lc 12,30-31).
Mentre a Gerusalemme i credenti non possiedono nulla, tutto è in comune, e si trovano nell’indigenza, ad Antiochia il modello di comunità è differente. Qui i credenti possiedono e decidono, in piena libertà, di donare l’aiuto ai fratelli Giudei: “I discepoli si accordarono, ciascuno secondo quello che possedeva, di mandare un soccorso ai fratelli abitanti in Giudea” (At 11,29).
Dalla necessità di soccorrere la comunità giudeo-credente di Gerusalemme, dove la colletta verrà inviata (At 21,17), si vede che la tanto esaltata comunione dei beni non ha dato alcun risultato positivo. Questa comunità, che si vantava che nessuno dei componenti “tra loro era bisognoso” (At 4, 34), in realtà ha avuto bisogno di “una colletta a favore dei poveri che sono nella comunità di Gerusalemme” (Rm 15,26).
Criticando con tanta severità la comunità di Gerusalemme, centrata nella comunione dei beni attraverso la capitalizzazione comunitaria degli stessi, l’evangelista pone in evidenza quale è l’atteggiamento conforme al messaggio di Gesù: la comunicazione libera e responsabile dei propri beni, senza necessità di amministratori o di controlli interni o di imposizioni (tasse e decime), senza preoccuparsi delle proprie necessità ma di quelle degli altri.
La dipendenza economica mantiene le persone in uno stato infantile, la responsabile gestione dei propri beni è segno di maturità e dell’età adulta. Mentre la persona infantile è centrata sui propri bisogni, la caratteristica della persona adulta e matura è di occuparsi degli altri.
Laddove c’è libertà c’è lo Spirito (2 Cor 3,17) che spinge gli uomini a liberarsi dall’egoismo e dal pensare alle proprie necessità per aprirsi ai bisogni e alle necessità degli altri, in sintonia con la generosità della creazione.
I fedeli di Gerusalemme e quelli di Antiochia credono nello stesso Signore, ma sono riconosciuti come cristiani solo quelli di Antiochia, gli unici che, anziché pensare a se stessi, si preoccupano per gli altri.
Alberto Maggi